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Come fare scelte giuste

Capita, alle volte, di sentirsi costretti dalla vita ad una serie di scelte obbligate.

In questi momenti siamo talmente impegnati ad andare avanti a testa bassa che dimentichiamo di ascoltarci.

Non solo ci scordiamo di chiederci come stiamo, ma spesso, capita di navigare a vista, senza ricordarci che avevamo una direzione e rischiamo di restare per troppo tempo, alle volte per sempre, in balia delle onde.

Ecco, in quei momenti dovremmo ricordarci di fermarci e fare il punto della situazione: osservare dove siamo e cosa sta succedendo, ascoltare come stiamo e soprattutto, decidere cosa vogliamo. Perché la nostra vita e la nostra felicità sono esclusivamente una nostra responsabilità

Non importa se la situazione che vediamo non è quella che vogliamo, o se stiamo malissimo e non avremmo voluto, o se siamo in un momento in cui non possiamo fare altro che stringere i denti ed andare avanti.

L’importante è essere consapevoli della scelta che stiamo facendo. perché che ci piaccia o no, noi scegliamo sempre.

Scegliamo tra diverse possibilità, perché, più o meno consciamente, decidiamo che quella va meglio per noi in quel momento. Ci fa stare meglio. O è il male minore.

E allora fermiamoci e cerchiamo di capire cosa stiamo scegliendo e se, in quel momento, è davvero quello che vogliamo.

 

Cosa vuol dire perdonare?

 

Il perdono è sicuramente uno dei processi di elaborazione che siamo in grado di fare e che porta benessere.

Ho letto una storia tempo fa, non so se è vera, ma il concetto mi è piaciuto molto:

pare che un tempo, da qualche parte in Africa, in caso di omicidio si prendesse il colpevole e si gettasse in acqua in modo tale che la famiglia della persona uccisa avesse la possibilità di vendicarsi, lasciando morire chi li aveva privati del loro caro, oppure di perdonarlo andandolo a salvare.

Il punto è che se lo si lasciava morire, si restava per sempre intrappolati nel lutto poiché senza perdono non c’è possibilità di elaborazione.

Senza il perdono non c’è occasione di crescita, di evoluzione personale nostra e dell’altro; noi impariamo per prove ed errori e se non possiamo rimediare, non riusciamo nemmeno a crescere.

Ma, esattamente, che cosa significa perdonare?

Perdonare non significa dimenticare o fare finta di niente, significa vedere la realtà, quello che è successo ed essere consapevoli della notra visione di tutto ciò.

Perdonare significa lasciare andare, liberare l’altro e soprattutto noi stessi dal rancore e dalle emozioni dolorose che stanno alla base della rabbia.

Il primo passo è quindi capire cosa c’è sotto, perchè sono così arrabbiato, cosa mi ha ferito, quali sono i bisogni sottostanti che non hanno trovato una loro soddisfazione.

Il secondo passo è confrontarsi con l’altra persona, esprimendo i propri bisogni e le proprie emozioni a riguardo ed ascoltando il suo punto di vista, quali emozioni si sono attivate in lui/lei e come mai ha attuato quel comportamento.

Il che non vuol dire che debba accettare la motivazioni a ciò od il comportamento, ma il confronto sicuramente ci può aiutare ad avvicinarci.

In sintesi, potremmo dire che perdonare implica una profonda conoscenza ed accettazione di noi e dell’altro, così come siamo, con le nostre idee, fragilità, valori; capire ed accettare che può anche essere che ci troviamo a livelli di crescita evolutiva diversi e che, comunque,  stiamo facendo tutti del nostro meglio. Perdonare significa considerare che per la nostra storia, i nostri traumi e le nostre difese stiamo cercando di sopravvivere ad una vita talvolta troppo complicata per i nostri schemi.

Perdonare non è giustificare, ma capire ed accettare.

Poi, certamente dipende da chi e cosa è stato fatto. Dall’intenzionalità e crudeltà che ci sono state, dalla durata in termini temporali del comportamento che ci ha fatto male. E, vero è, talvolta ci sono situazioni imperdonabili, ma è anche vero che, fortunatamente, nelle nostre vite quotidiane, le possibilità di perdono sono davvero maggiori di quelle che vorremmo.

3 consigli per aumentare la resilienza

Essere resilienti nei periodi difficili non solo ci permette di reggere gli urti della vita, ma di uscirne ancora più forti di prima.


La parola “resilienza” nasce nell’ambito della tecnologia dei metalli, e, in sostanza, è la capacità di un materiale di resistere a un urto, assorbendo l’energia ed eventualmente rilasciandola dopo la deformazione.


Il significato della parola resilienza è quindi strettamente connesso al concetto di elasticità: all’idea di lasciar entrare, e talvolta persino inglobare, ciò che di dannoso ci arriva dall’esterno, permettendogli di modificarci senza danneggiarci e saperlo poi ributtare fuori sottoforma di energia. Ancora meglio se energia positiva e creativa. Talvolta reattiva.

Ma come si fa ad essere resilienti?

Sicuramente impararlo da bambini seguendo l’esempio o i consigli di genitori illuminati sarebbe l’ideale, ma la resilienza è un’abilità che si può sempre acquisire.

Vediamo come.


Diventare resilienti in 3 mosse

1. Accetta quel che è successo

E’ capitata una cosa brutta, ingiusta o qualcosa che non ti aspettavi o a cui non riesci a dare una spiegazione. Non riesci ad accettarlo e a fartene una ragione.


La resistenza alle emozioni fa male sia a livello psicologico che fisico. Il rischio è che le emozioni come la rabbia e il dolore, trattenute, implodano e portino a sintomi o modifiche del nostro umore anche importanti come ansia e depressione, minando il nostro stato di benessere generale.


Prova a dirti: “Ok. È successo e non me lo aspettavo proprio. E’ ingiusto, cattivo, illegale, non me lo merito. E’ terribilmente triste e non volevo che succedesse. E secondo me non doveva succedere. Non mi meritavo che quella persona mi trattasse così! Non volevo che mi succedesse questo. Ma è successo.”


Poi chiediti: E adesso cosa posso fare?”


2. Analizza le emozioni

 

Prova ora ad ascoltare cosa stai provando e cerca di dare un nome a quello che senti. E’ dolore? Rabbia? Delusione? Paura? Sconforto? Senso di sconfitta? Frustrazione?

Perché stai provando quelle emozioni? Da cosa sono mosse? Quali sono i tuoi bisogni che non trovano soddisfazione in questa situazione?


Anche per questa fase prenditi il tempo che ti serve per capire bene di che si tratta e da dove arriva.

Se da solo non riesci cerca amici o persone di cui ti fidi che ti vogliano davvero bene, che sappiano ascoltarti in maniera profonda, accogliente e non giudicante e che possano aiutarti a fare chiarezza.


Se guardandoti intorno non ne trovi, puoi chiedere una consulenza ad uno psicologo o psicoterapeuta o anche semplicemente un counsellor.

 

Se sei riuscito a fare questo dovresti essere maggiormente consapevole della situazione in cui ti trovi e pronto per trovare strategie resilienti.


Il che non significa che devi sempre modificarti per farti andare bene tutto, ma che devi ascoltarti per capire di cosa hai bisogno, cercare la soluzione che, data la situazione in cui ti trovi, come sei fatto, i tuoi bisogni, ti fa stare meglio.


3. Attiva reazioni positive

A questo punto, la domanda successiva è: “Cosa posso trarre di positivo da questa esperienza?” “Cosa ho imparato? O “Cosa devo imparare?” “Come posso trarne vantaggio?” “Quale può essere una reazione che mi fa stare bene?”


Tutto ciò che ci capita nella vita porta esperienza, se solo riusciamo a coglierla!  E se vogliamo aumentare la nostra resilienza dobbiamo allenarci a farlo!


La resilienza, in fondo, è proprio questo: ammortizzare gli urti della vita e girarli a nostro vantaggio.

 

L’intolleranza da Covid

Sarà che sono di approccio rogersiano e Carl Rogers credeva nell’unicità e nella ricchezza interiore di ogni persona (e io lavoro benissimo senza etichettare nessuno!).

Sarà che sono sempre stata “dall’altra parte”, quella che viene da fuori, quella sovrappeso, quella la cui vita “normale” era “esotica” per gli altri.

Ma l’essere “dall’altra parte” dello specchio se da un lato ti condanna alla solitudine, dall’altro ti permette di guardare le cose da una prospettiva speculare.

La solitudine ti insegna a pensare con la tua testa e la diversa prospettiva ti permette di cogliere ed apprezzare particolari che “agli altri” sfuggono, quelle particolari sfumature che rendono la vita e le persone un mix di colori unici.

Premesso tutto ciò, nella giornata internazionale della tolleranza, non posso fare a meno di notare una tendenza sempre più marcata al giudizio frettoloso.

Siamo tutti pronti ad incastrare chiunque in semplicistiche cornici o etichette in base a poche parole chiave. E se questo era un fenomeno già presente, l’arrivo del Covid l’ha incrementato in maniera considerevole.

Il Covid ci ha messo di fronte a situazioni, pensieri e stimoli nuovi che hanno creato in noi confusione e conflitti e risvegliato emozioni potenti.

Il tema della malattia tocca argomenti a cui non eravamo più abituati a pensare se non in maniera semplicistica o estremamente superficiale (a meno che non abbiamo avuto la sfortuna di una grave malattia che riguarda noi o qualcuno che amiamo).

Il dover ragionare, senza preavviso, sul senso e sulla qualità della vita, sulla morte e la sua naturalità, sul significato della libertà di pensiero e di scelta, suscita emozioni profonde come paura e rabbia con cui spesso non siamo a nostro agio e che talvolta non riusciamo a controllare o gestire. Ed ecco che a rincarare la dose arriva il senso di impotenza e l’inadeguatezza dei nostri strumenti emotivi e cognitivi per affrontare la situazione. E forse arriva anche il senso di solitudine.

L’utilizzo del potere da parte dello Stato, in maniera più o meno soft o manipolativa, ci mette di fronte all’idea che abbiamo della democrazia, delle priorità, della salute, all’idea che abbiamo della politica, dei politici e degli “esperti” (e delle loro talvolta scellerate e spero inconsapevoli dichiarazioni).

Il bisogno dei media italiani di fare notizia, purtroppo, contribuisce all’allagamento emotivo amplificando la paura e il senso di impotenza ed espandendo ulteriormente il contagio emotivo.

A causa di tutto questo (e di molto altro) proviamo emozioni ancestrali che se da una parte sono le più semplici da suscitare e su cui fare leva per ottenere facili risultati elettorali e di audience, alla lunga sono anche le più difficili da gestire e sicuramente le più dannose a livello psicologico, personale e sociale.

Il problema è che quando queste emozioni “negative” prendono il sopravvento le capacità cognitive vengono momentaneamente messe in secondo piano e gli esseri viventi attivano schemi semplici e veloci di risoluzione dei problemi: l’utilizzo del potere e delle modalità relazionali autoritarie.

Basta fare un salto sui social per notare il clima di intolleranza e di conflitto verso idee diverse dalle proprie, ci sono fazioni per ogni tipo di argomento e la probabilità di essere etichettati in maniera sbrigativa e semplicistica per il solo fatto di avere un’opinione che si discosta dalla massa è altissima.

Sentivo ieri l’intervista del Dott. Bassetti, il virologo di Genova, e al di là delle sue opinioni su cui si può concordare o no, mi ha colpito quando ha parlato di “pensiero unico imposto”, perché è davvero anche la mia percezione.

Leggo articoli e post in cui si sprecano le interpretazioni  psicologiche e in cui le persone che si permettono di ragionare sui dati che vengono forniti, o quelle che si basano sulle proprie esperienze di vita quotidiana o che vedono le cose da una prospettiva diversa da quelle dei mezzi di comunicazione di massa e dai bisogni della politica, sono diagnosticate come psicologicamente disfunzionali, resistenti, inconsapevoli, adolescenziali, negazionisti

Oggi è la giornata internazionale della Tolleranza e forse è ora che ognuno di noi faccia i conti con il fatto che la diversità, anche di pensiero, è ricchezza e tante volte viene percepita come pericolo perché rischia di cambiare qualcosa di noi.

Se io accetto anche solo qualcosa del tuo punto di vista, che è diverso dal mio, io cambio un po’ e questo è un rischio, una perdita di equilibrio che spesso non vogliamo, soprattutto quando siamo già in una situazione di incertezza.

Forse non è il momento giusto per cominciare a cambiare le cose fuori e dentro di noi, ma forse è anche vero che se restiamo ancorati alle nostre talvolta insoddisfacenti sicurezze non cambieremo mai nulla, né dentro, né fuori.

 

Il bello del Coronavirus

Mia nonna abitava a Genova e la finestra di casa sua si affacciava sulle finestre e sui cortili di altre case. Quando andavo a trovarla, mi sedevo accanto a lei alla finestra della cucina e mi aggiornava sulle novità di ogni famiglia. Di fronte, al secondo piano, abitava “la signora mezze maniche” da noi così soprannominata perché estate ed inverno faceva sempre e solo i lavori di casa e soprattutto con maglie dalle maniche corte.  Al piano di sotto abitava un amico di nonna con la moglie e nel palazzone di sinistra c’erano davvero tante luci, tante vite e tante storie da osservare e raccontarci.

”Vedi” – mi diceva – “ lì qualcuno deve essere malato..la signora stende sempre delle camicie da notte e cambia spesso le lenzuola..eppoi sembra davvero stanca..”. E in queste storie di persone raccontate con tanto buon senso era chiaro che la vita e la morte, la gioia e il dolore erano parte naturale della nostra esistenza.

Del “fenomeno coronavirus” mi colpisce la paura che vedo nella gente, come se all’improvviso scoprissimo che siamo esseri mortali e che lo siamo dal momento che si crea la nostra prima cellula.

L’odierna cultura occidentale e il nostro stile di vita, troppo spesso egoistico e superficiale, aveva permesso a molti di noi di crogiolarsi nell’illusione che per malattia, guerre, torture muoiono solo gli altri, ma tanto loro sono diversi, sono lontani, il loro dolore è diverso… ed avevamo sempre una giustificazione che ci confortava. E lo facciamo ancora! L’età media dei decessi di coronavirus è 81 anni? Si ma erano malati, stavano già male, e quello giovane? Ah beh, si è trascurato!

Abbiamo sempre una nuova giustificazione per tenere in piedi la menzogna che ci rassicura: noi siamo invulnerabili.

Poi succede che ci ammaliamo o che qualcuno che conosciamo di persona o anche solo televisivamente si ammala e tutto ad un tratto non troviamo più scuse che reggano e tocca affrontare la realtà: noi e le persone che amiamo possiamo morire in qualunque momento per qualunque cosa e non abbiamo alcun controllo su questo.

Se da una parte questa consapevolezza può terrorizzare, dall’altra è un’ottima opportunità di crescita e il fatto che le librerie siano piene di testi scritti da persone malate che cercano di fare aprire gli occhi anche a noi attraverso la loro esperienza, non è un caso.

La crescita personale passa attraverso il dolore e la consapevolezza della realtà e davvero credo che da questo momento di pausa potremmo trarre grandi benefici e momenti di evoluzione individuale e culturale. Se solo lo vogliamo.

La riduzione della vita sociale e “mondana” ci costringe a stare di fronte a noi stessi, alle nostre coppie e famiglie e non possiamo più scappare dalla realtà: siamo e sono come/dove vorremmo?

In questi giorni tra tv, social e il semplice parlare quotidiano con le persone, non posso fare a meno di notare genitori che invece di godersi questo maggior tempo a disposizione per entrare in relazione coi figli ne sono esasperati, coppie che sono messe di fronte ai loro silenzi ed al fatto che hanno perso il contatto tra di loro, giovani che senza il gruppo con cui passare le serate percepiscono  con il loro profondo senso di noia e solitudine, persone che se non si anestetizzano con la palestra quotidiana precipitano nella tristezza.

E fin qui tutto bene. Rientra nella nostra umanità.

Quello che non va bene è sprecare le occasioni di cambiamento che la vita ci propone, quando ci mostra ciò che non avremmo mai voluto vedere e ci fa uscire dalla nostra confort-zone.

 

Si chiama omertà.

Sono in attesa davanti ad una scuola media. I ragazzi delle superiori escono prima e noto una insolita calca di ragazzi intorno a me. Di solito non si fermano in questa zona. Diversi genitori, in attesa come me, si spostano lontano da questi “strani movimenti” giovanili e, in effetti, non tira una buona aria. Siccome non ci sono altri adulti e ho l’impressione che stia per accadere qualcosa di potenzialmente brutto, decido di restare esattamente dove sono ovvero circondata da un’intera classe schiamazzante. Osservo un po’ la situazione cercando di capire che succede finché noto una sorta di “regolazione di conti” tra due ragazze. Una ventina di adolescenti, credo compagni di classe, le circonda, le aizza, le riprende col cellulare e loro, non so se perché devono o lo vogliono fare, si confrontano su non ho capito che questione. Mi fanno una grandissima tenerezza, sembrano davvero in difficoltà, impacciate tra la gestione delle loro emozioni e il fatto che sono circondate da una folla curiosa e invadente verso cui si girano continuamente. Per fortuna scelgono di dirsi poche cose con toni normali e ognuna va per la sua strada. I compagni restano e continuano a buttare benzina sul fuoco, ma la situazione si è stabilizzata. Nel mentre arriva una loro professoressa che con un gesto davvero coraggioso e responsabile, oramai fuori dal suo orario di lavoro e anche dalla zona della sua scuola, nota la confusione ed arriva chiedendo con decisione cosa sta succedendo. Ovviamente nessuno ha visto niente, lei ripete la domanda varie volte ad alta voce, ma il messaggio che passa è che si è sbagliata e che non è successo niente. Lei chiede anche ad un adulto che era lì vicino a noi e lui, molto coraggiosamente, dice di non aver visto niente. Sono indecisa tra il farmi gli affari miei (magari poi i ragazzi hanno delle ripercussioni e mi dispiacerebbe) e l’intervenire, ma davvero non posso lasciare da sola quella prof a fare la figura della cretina ed intervengo. Oltretutto credo che dal momento che ha visto ed è intervenuta, le possa essere utile per un eventuale futuro intervento in classe avere più informazioni sulle dinamiche del gruppo. Le dico che c’erano due ragazze che discutevano ma che non era successo niente di grave. Lei mi chiede se si sono messi le mani addosso e a quel punto ho ottenuto l’attenzione di una buona parte dei ragazzi…. e decido di approfittarne. Dico di no, ma che i compagni non si sono comportati benissimo, e rivolgendomi a loro dico che quando due amiche litigano o sono in difficoltà non si sta a guardare, aizzare o riprendere, ma si cerca di aiutarle anche mediando la situazione. La prof mi ringrazia e si disperdono tutti, ma un ragazzino, mentre se ne sta andando dice tra sé (ma so che era per me): “anche fare la spia però non è comportarsi bene!”. Mi dispiace che nel mentre lui sia già dall’altra parte della strada, perché avrei voluto spiegargli che intervenire e segnalare una cosa brutta che sta succedendo o che fa stare male qualcuno non è “fare la spia” e che il non dire niente si chiama omertà ed è un comportamento che rende davvero peggiore la vita di tutti noi. E penso davvero che non bisogna perdere nessuna occasione per spiegarlo ai nostri figli.

Un nuovo anno

Tra poco saremo dentro un nuovo anno ed è tempo di bilanci e di buoni propositi. Ieri leggevo su facebook un post in cui si chiedeva di valutare il proprio 2018 e mi ha davvero colpito il fatto che su centinaia di commenti solo pochissimi erano positivi. Possibile che per la maggior parte delle persone un anno intero sia definibile con un misero “di merda” o “terribile” o “orrendo”?

Poi ho pensato al mio 2018. A tutto il mio anno.

Sono morte diverse persone a cui volevo molto bene, ma sono riuscita a salutarle più o meno come volevo, sicuramente al meglio che potevo. Ho dovuto fare i conti con dei fallimenti e sono stata costretta dalla vita a riorganizzare il mio lavoro, ma ho esplorato nuovi territori della vita e di me ed ho scoperto cose estremamente interessanti e mi sento sempre di più soddisfatta di me stessa. Ho iniziato e terminato alcune collaborazioni con gioia e fatica ed ho fatto degli errori. Qualche persona a cui voglio bene si è ammalata anche gravemente e anche io ho avuto qualche problema, fortunatamente risolvibile. Alcuni amici e parenti sono spariti, di alcuni so il perché (o posso ipotizzarlo) di altri no, ma dopo il dolore, la delusione e la rabbia, sono abbastanza riuscita ad accettare le loro scelte e a salutarli silenziosamente. Ho conosciuto persone nuove che hanno condiviso con me un po’ delle loro vite e che mi hanno fatto sentire amata e nei momenti di sconforto ho avuto il supporto di qualche amico…pochi in realtà, ma che hanno tenuto e che sono stati un sostegno prezioso. Ho visto degli arcobaleni meravigliosi, ho visto albe e tramonti bellissimi e ho respirato l’aria di tramontana che tanto mi piace e mi fa sentire a casa. Ho visto mio figlio crescere e diventare quella meraviglia di ragazzo che è. Ho riso e pianto tanto, da sola e in compagnia, mi sono arrabbiata, spaventata, innamorata, emozionata e commossa. Ho avuto dei momenti bellissimi e bruttissimi ma il 2018 me lo sono vissuto tutto più che potevo nei suoi alti e bassi.

Quindi mi chiedo: com’è possibile liquidare un intero anno di vita con un unico aggettivo negativo? Non sarà che ci concentriamo sulle cose che non vanno come vorremmo perché non riusciamo ad accettare che la vita abbia dei programmi diversi per noi da quelli che avremmo desiderato? Non sarà che non riusciamo ad essere grati per ogni singola meraviglia che incontriamo in ogni giornata della nostra vita? E’ possibile che non riusciamo ad abbandonarci al flusso della vita e che resistiamo rabbiosamente ad ogni cambiamento? Jampolsky dice che “dovrà pur esserci un modo diverso per attraversare la vita che esserci trascinati dentro urlando e scalciando”. E allora proviamoci!

Domani prendete un capiente barattolo e dal primo giorno dell’anno scrivete su dei foglietti ogni cosa bella che vi succede ogni giorno e mettete i foglietti ripiegati nel barattolo. A fine anno vi renderete conto di quanti momenti positivi avete vissuto!!!

Buon 2019 a tutti voi!

Alla base del bullismo, c’è un suv parcheggiato dai genitori sul marciapiede?

Qualche giorno fa su facebook girava la proiezione di una slide che diceva: “Io credo che alla base dell’arroganza e del bullismo alle superiori ci sia un suv parcheggiato sul marciapiede dai genitori durante le elementari”.

Ho scelto di non condividerlo perché non credo che funzioni proprio così, ma la domanda del titolo di questo post ha continuato a girarmi per la testa……fino a ieri pomeriggio.

Vado a prendere mio figlio a scuola, 5 minuti prima del suono della campanella, dopo aver parcheggiato per bene, sono davanti alla scuola, a piedi, che lo aspetto.

Tre minuti prima del suono della campanella arriva una mamma con un suv che, senza fare una piega, piazza la macchina direttamente davanti a me, sulle strisce pedonali, esattamente sul percorso di uscita dei ragazzi (anche del suo!). Io non dico niente, ma vedo che comincia a fare strani movimenti di risposta alla mia faccia perplessa. Poi scende e mi chiede : “C’è qualcosa che non va?” E io che ero perplessa ma ancora calma: “Signora ha parcheggiato sulle strisce dove passano i bambini”. Mi risponde che era l’unico posto libero e io le rispondo che e’ uno spazio libero perché non è un parcheggio ed e’ per quello che non ci si e’ messo nessuno. Lei dà un’occhiata dietro ai 20 cm di strisce che aveva lasciato libere e mi dice: “Si passa!”. E io incredibilmente ancora davvero calma: “Intanto una sedia a rotelle o una bicicletta non ci passano, ma poi il punto non e’ quello; e’ una questione di senso civico, di educazione, di esempio che diamo ai nostri figli…” Lei mi interrompe e mi dice: “Si! Sono maleducata! Sono maleducata!!”

A quel punto erano usciti i bambini e non ho infierito, ma mi ha davvero colpito l’egocentrismo e l’assoluta mancanza di consapevolezza di se’ di quella donna e delle conseguenze del suo comportamento.

Ho pensato al fatto che di solito, se sappiamo di fare qualcosa di sbagliato, un minimo di senso di colpa lo abbiamo da qualche parte, ma la sfrontatezza con cui quella donna mi rispondeva evidenziava il fatto che, per lei, in quel momento, c’era solo la necessità di soddisfare il suo bisogno subito e secondo le sue regole. E non è un caso isolato.

Ogni mattina davanti a scuola mi rendo conto che per molti scatta questo meccanismo: faccio scendere mio figlio esattamente davanti alla scuola fregandomene del fatto che dietro ho tante altre macchine e pullman con dentro bambini che devono andare a scuola in orario come il mio ed io li sto bloccando e che se tutti facciamo così, tutti arriviamo tardi.

Oppure non faccio passare i ragazzi sulle strisce perché ho fretta e sono in ritardo (forse perché non sono stato in grado di programmare i tempi in maniera efficace?), ma non penso che quel figlio che va a scuola a piedi potrebbe essere il mio e che tutti dobbiamo avere cura di tutti.

Ci sono solo io e la soddisfazione immediata dei miei bisogni e di quelli di mio figlio.

Forse non c’è un suv parcheggiato sul marciapiede alla base del bullismo, ma sicuramente c’è tutto quello che ci sta dietro a quel gesto.

E se a Natale sono triste?

 

Sarà che l’idea del Natale è da sempre associata al calore ed alla famiglia, sarà che tutto ciò, spesso, è più una fantasia che una realtà. Sarà che se avessimo avuto una vita fortunata o una famiglia equilibrata o quantomeno sana di mente, non ci saremmo incontrati nel mio studio. Sarà che in questo periodo siamo colti da slanci altruistici e talvolta da insane idee riparative (spesso destinate a fallire perché per far funzionare un rapporto di qualsiasi tipo bisogna investirci almeno in due), sarà che la vita è anche una gran fatica, ma ogni anno non posso fare a meno di notare che non c’è niente che smuove nostalgie e dolori più del Natale.

Nostalgie per i Natali felici che abbiamo avuto e perduto, per quelli che avremmo desiderato e che non ci sono stati. Nostalgia per chi c’è stato e non c’è più o per chi non c’è mai stato ed avrebbe dovuto esserci.

Dolore perché ogni volta ci aspettiamo che le cose vadano come vorremmo, ma spesso non è così e la maggior parte delle volte non dipende da noi.

Dolore perché non ci sentiamo per niente in sintonia con tanta aria di gioia ed amore e più vicini alla Piccola Fiammiferaia che al Grinch non vediamo l’ora che le feste finiscano.

Eppoi ci sono i bilanci di fine anno e la speranza per il nuovo anno.

Ed ecco la Tendenza Attualizzante di Carl Rogers si attiva e la speranza, la grande compagna motivatrice dell’essere umano, fa capolino in questi momenti faticosi. Gran parte del mio lavoro di terapeuta è  scovarla e prendermene cura. Di solito, riesco quasi sempre a trovarla; talvolta è piccola e terribilmente menomata, altre volte è insicura, delusa o arrabbiata, ma da qualche parte, anche se ben nascosta…c’è!

E ogni volta che la ritrovo mi sento sollevata e felice, come quando si rincontra una vecchia amica ed enormemente grata per la possibilità che mi è stata data di svolgere questa meravigliosa professione.

Cosa vuol dire perdonare?

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